Autostrada del sud - Deviazioni #5
Deviazioni è la rubrica di Autostrada del Sud che cambia strada rispetto al solito percorso e parla di libri che mi sono piaciuti e che tengo in un angolo speciale della mia carriera di lettrice, per motivi puramente personali e assolutamente di parte. Esce senza una cadenza precisa. Le puntate precedenti si possono leggere QUI, QUI, QUI e QUI.
Quando a fine 2020 ho fatto una serie di stories sui libri letti durante i dodici mesi precedenti, avevo detto chiaro e tondo che il 2021 sarebbe stato l’anno di 2666 di Roberto Bolaño. Non so perché, ma faccio molta fatica a leggere libri molto lunghi, quindi ho sempre rimandato questa lettura da 963 pagine, un rettangolo di 15,5 cm x 23,5 cm. Sapevo che era una di quelle storie che avrei amato follemente, eppure mi tiravo indietro, rimandavo, e più mi tiravo indietro e più rimandavo, più mi sentivo abbastanza scema e mi convincevo che sarebbe stato uno di quei libri-della-vita che a posteriore vorresti solo poter rileggere di nuovo per la prima volta (la stessa cosa è successa con Sopra eroi e tombe di Ernesto Sabato). Fortuna ha voluto che 2666 sia diviso in cinque libri, quindi la mia demenza, una volta avuta questa notizia, si è fatta prendere meno dal panico. Un libro per volta, mi sono detta, ed eccoci qui, fine novembre 2021, quattro libri su cinque portati a casa, ogni cellula del mio corpo rapita dagli intrecci, dai misteri, dai dialoghi assurdi. Ma questa puntata di Deviazioni non parla di 2666 come poteva sembrare fino a qui. Parla di un altro libro, di cui in effetti è incredibile io non abbia ancora parlato, perché è un libro che amo moltissimo e che mi è tornato in mente proprio grazie a 2666: Pedro Páramo di Juan Rulfo.
Juan Rulfo non è uno scrittore molto noto, almeno qui. Nato in Messico nel 1917, rimane orfano di padre durante la rivoluzione dei Cristeros, una rivolta popolare che coinvolse il Messico nella seconda metà degli anni ‘20, contro le politiche anticlericali e anticattoliche dell’allora presidente Plutarco Elías Calles, che aveva soppresso le funzioni religiose in un paese in cui l’influenza cattolica era estremamente radicata. Pochi anni dopo perde anche la madre, finisce in orfanotrofio. È qui che scopre “le lettere” e a fianco dei mille lavori che farà (funzionario e addirittura rappresentante di pneumatici) studierà fino a diventare una specie di istituzione.
In Messico è una sorta di dio, e anche in tutta l’America Latina il suo nome suona tra i nomi dei più grandi. C’è quella foto molto bella in cui lui e quell’altro genio di Onetti bevono del vino che mi fa sempre molto ridere. Onetti sembra sempre un matto, Rulfo è sempre serissimo, pare che nemmeno un asteroide caduto dal cielo possa provocare in lui qualsiasi cambio di espressione, una reazione minima.
La figura di Rulfo è a mio avviso meravigliosa: uomo mite e schivo, timido e solitario, ha scritto tre libri brevissimi - la sua opera completa è composta da poche centinaia di pagine, interamente pubblicata da Einaudi - e quando gli chiesero come mai avesse smesso di scrivere, pare che avesse riposto, con tutta la serenità e la sincerità del mondo, che semplicemente era morto lo zio Celerino, ovvero quello che gli raccontava le storie (risposta meravigliosa, che dice molto di una certa “messicanità”; la sua raccolta di racconti La pianura in fiamme, originariamente si doveva chiamare proprio I racconti dello zio Celerino). Un’altra leggenda vuole che trovasse i nomi dei suoi personaggi leggendo le lapidi dei cimiteri di Jalisco, lo stato messicano in cui era nato, una cosa difficile da pensare se si guardano le foto di Rulfo - un uomo elegante e ordinario, che non ha l’aria di chi gira per cimiteri alla ricerca di ispirazione - e contemporaneamente probabilissima una volta lette venti pagine di una qualsiasi sua opera.
Scritto nel 1955, Pedro Páramo è stato tradotto per la prima volta in Italia da Feltrinelli nel 1960, per poi entrare nel catalogo Einaudi.
Avete correttamente inteso: quella che vedete a destra è una prima edizione.
Questi i fatti: Juan Preciado, il protagonista e voce narrante, promette alla madre morente di esaudire il suo ultimo desiderio: recarsi a Comala alla ricerca del proprio padre, Pedro Páramo, che lui non ha mai conosciuto, e cercare vendetta, per “fagli pagare caro l’oblio in cui ci ha lasciati”. In viaggio verso Comala, scopre presto non solo che il padre è morto anni prima, portandosi appresso molti segreti, ma che era un uomo corrotto e malvagio.
A Comala, nella sua ricerca, Juan incontra persone che sembrano aspettarlo e conoscerlo molto bene, nonostante sia la prima volta che si incontrano. Non tarda a capire che Comala è un paese fantasma, e Juan si trova più volte in uno stato di smarrimento: la gran parte delle persone con cui parla sembrano spettri e tra sussurri e ricordi, flashback e rivelazioni, i pezzi sulla vita di Pedro Páramo si mettono insieme. In questo breve romanzo realtà e magia, vita e morte, si passano il testimone continuamente, dando vita a un realismo magico a mio avviso particolare, che si discosta dall’idea che abbiamo del genere. Questo è un realismo magico affatto barocco, molto minimalista, con una scrittura asciutta e pulitissima, seppure immersa nello stile sudamericano.
«E così lei è suo figlio?»
«Di chi?», risposi.
«Di Doloritas».
«Sì, ma come lo sa?»
«Lei mi ha avvertito che sarebbe venuto. Proprio oggi. Che sarebbe arrivato oggi».
«Chi? Mia madre?»
«Sì, lei».
[…]
«Qui non c’è niente dove coricarsi», le dissi.
«Non si preoccupi per questo. Lei deve essere stanco e il sonno è un buon materasso per la stanchezza. Già domani le preparerò il letto. Come lei sa, non è facile preparare tutto in quattro e quattr’otto. Per questo bisogna essere preavvisati, e sua madre mi ha avvisato solo adesso».
«Mia madre», dissi, «mia madre è morta».
«Allora era per questo che sentivo la sua voce così flebile, come se avesse dovuto attraversare una grande distanza per arrivare fin qui. Ora capisco. E da quanto tempo è morta?»
«Già sette giorni».
«Poverina».
«Questo paese è pieno di echi. Ti sembrano rinchiusi nel vuoto delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini, senti che ti calpestano i passi. Senti degli scricchiolii. Risate. Ridate ormai molto vecchie, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Senti tutto quello. Penso che arriverà un giorno in cui questi rumori finiranno».
Così mi diceva Damiana Cisneros mentre attraversavamo il paese.
«C’è stato un tempo in cui sentivo per molte notti il rumore di una festa. I rumori mi arrivavano fino alla Media Luna. Mi avvicinai per vedere la festa e vidi questo: quel che stiamo vedendo adesso. Niente. Nessuno. Le strade deserte come adesso».
(…)
«Sì» tornò a dire Damiana Cisneros. - «Questo paese è pieno di echi. Io non mi spavento più. Sento l’ululare dei cani e lascio che ululino. E nelle giornate d’aria si vede il vento che trascina le foglie d’alberi, mentre qui, come vedi, non ci sono alberi. Una volta ce ne sono stati, se no da dove verrebbero fuori queste foglie?»
Ora, non voglio entrare in analisi approfondite sui sotto temi delle sue storie - la critica alla politica messicana, ma anche una certa disillusione nei confronti dei movimenti rivoluzionari del suo paese di inizio ‘900 - né entrare troppo nella trama: il libro ha 141 pagine e non avrebbe senso srotolare troppi dettagli. Mettiamola così: come scrisse un giornalista sul Sole 24 Ore alcuni anni fa, “nei libri di Rulfo i morti ritornano e tengono in ostaggio i vivi”. Lo fanno anche i paesaggi del passato, e infatti questo non è solo un viaggio di Juan Preciado nello spazio, ma lo è anche nel tempo, in un altrove dai contorni non delineati, nei luoghi che c’erano e che non ci sono più, attraverso le parole di chi c’era e ora non c’è più.
Un gigante come Garcia Marquez disse che la lettura di Pedro Páramo lo aiutò in un momento in cui la sua scrittura era in totale stallo, mostrandogli una strada nuova. Sembra che Mutis arrivò a casa sua di corsa, salì le scale e gli disse: Leggi questo, cazzo, e impara! (lo dice Wikipedia, mi piace pensare sia vero). Tempo dopo, Marquez dichiarò: «Quella notte non riuscii a dormire fino a che non ebbi terminato una seconda lettura; mai, dopo la notte tremenda in cui avevo letto La metamorfosi di Kafka, in un lugubre pensionato studentesco di Bogotà dieci anni prima, avevo conosciuto una simile commozione». Non è tutto: anche il famosissimo incipit di Cent’anni di solitudine sembra richiamare una frase di Rulfo: “Molti anni dopo, padre Renteria si sarebbe ricordato della notte in cui la scomodità del letto…”.
A me pare una cosa bellissima.
Questa era la quinta puntata di Deviazioni.
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Ci si risente presto con una nuova puntata di letture, libri da recuperare, una mini intervista e una serie di link interessanti (molto presto = la prossima settimana).
Ciao!
Silvia