Autostrada del sud - Deviazioni #2
Deviazioni è la rubrica di Autostrada del Sud che cambia strada rispetto al solito percorso e parla di libri che mi sono piaciuti e che tengo in un angolo speciale della mia carriera di lettrice, per motivi puramente personali e assolutamente di parte.
///
La data scritta in prima pagina con un pennarellino azzurro dice 11 maggio 2014.
Ricordo perfettamente quel giorno. Ero su un treno regionale Torino - Milano. Tornavo dal Salone di Torino (i festival, ricordate quanto era bello andarci?) ed ero su quel treno con un'amica che oggi non lo è più.
Allora facevo parte di quel progetto meraviglioso che era Finzioni ed Einaudi mi invitò ad assistere alla presentazione di Paolo Giordano e del suo romanzo in uscita, Il nero e l'argento.
Lo confesso, accettai per gentilezza. Paolo Giordano era allora per me "il ragazzo dei numeri primi", un fisico che aveva scritto un esordio da due milioni di copie solo in Italia, che aveva vinto parecchi premi e da cui avevano tratto un film. Non avevo amato quel libro, anzi. L’avevo trovato sciatto per quasi tutto il suo succedersi. Ma soprattutto covavo una sorta di rancore e di invidia per quel successo, per essere riuscito ad entrare in un mondo che agognavo, venendo per di più da un universo molto distante.
Rimasi affascinata dalla presentazione, dalle parole di Paola Gallo e di Paolo Giordano, dalla sua timidezza, e finito l'evento decisi di acquistare il libro.
Lo lessi d'un fiato, nel viaggio che da Torino mi portava a Parma passando per Milano. Quando alzavo gli occhi vedevo la mia amica del cuore che leggeva a sua volta, non ricordo quale libro, e ricordo che saperla lì a fare la stessa cosa mi metteva una specie di pace addosso. Ogni tanto alzavo lo sguardo e mi assicuravo fosse ancora lì, lei faceva lo stesso.
Arrivai a Parma a lettura ultimata, turbata, colpita. Fu una delle prime volte in cui cambiai totalmente idea su un autore. Nel tempo di quel viaggio svanì il rancore, svanì l'invidia, rimase una sorta di ammirazione e una sensazione di calore che arrivava a ondate e che sento ancora oggi ogni volta che quel libro finisce tra le mie mani.
Il nero e l'argento è la terza opera di Paolo Giordano. Quella successiva, Divorare il cielo (bellissima pure questa) è probabilmente quella che viene definita “della maturità”. Eppure io vedo ne Il nero e l’argento il primo seme, la prima foglia, di un nuovo percorso.
È una novella lunga 118 pagine che racconta di una giovane coppia, del loro figlio e della donna che per molti anni li ha aiutati in casa, come balia del bambino e come collaboratrice domestica.
Il libro si apre con una periodo lungo sei righe a cui segue uno stacco, una frase delicata e insieme un macigno, separata da tutto il resto.
Il giorno del mio trentacinquesimo compleanno la signora A. ha rinunciato d'un tratto all'ostinazione che la caratterizzava ai miei occhi più di ogni altra qualità e, già composta in un letto che ormai pareva smisurato per il suo corpo, ha infine abbandonato il mondo che conosciamo.
La bomba esplode già a pagina 1.
La signora A. muore.
Le pagine che seguono sono il racconto degli anni precedenti fino a quel giorno e ai giorni successivi, quelli del funerale e della sepoltura. Come quella donna sia arrivata nella loro casa e perché, come si sia infiltrata nelle crepe invisibili della loro famiglia, come - la loro famiglia - l’abbia influenzata, accudita, curata. Un nastro srotolato d'un colpo e poi riavvolto piano, con una scrittura pacata e misurata. Eppure una storia raccontata anche con ferocia. So che può sembrare contraddittorio, ma ho sempre avuto questa sensazione ad ogni lettura.
La signora A., detta Babette, si ammala e comunica alla coppia che smetterà di lavorare per loro.
Questa però non è la storia di una malattia, né di una morte. Quella che Giordano racconta è una storia diversa, che solo in parte ha a che fare con la perdita.
Il nero e l’argento è principalmente la storia di uno sguardo. O meglio, di uno sguardo che viene meno. La storia della traiettoria che ha unito quella famiglia alla signora A., la storia della sua presenza e di come quella presenza proteggesse - consciamente o meno - tutti loro.
Nella nostra vita, la vita mia e di Nora e di Emanuele che a quell’epoca sembrava rivoluzionarsi ogni giorno e oscillava pericolosamente al vento come una pianta giovane, lei era un elemento fisso, un riparo, un albero antico dal tronco così largo da non riuscire a circondarlo con tre paia di braccia.
Babette non viene più a casa, Babette chiama al telefono, Babette invita a casa sua. Ma non è più *dentro* la loro casa, *dentro* la loro famiglia e le loro dinamiche. Vengono meno la sua presenza e il suo sguardo. E venendo meno, le pareti di quella casa iniziano a creparsi, il pavimento vibra, in preda a scosse di un terremoto non atteso.
A volte, la presenza di qualcuno di esterno, di qualcuno che guarda e vede, tocca da fuori una cosa (un amore, un’amicizia, un legame), in qualche modo rafforza e protegge quella cosa, anche se il contatto è in apparenza solo laterale.
Qualcuno dice che una cosa esiste solo quando viene nominata. Ecco, in modo simile, qui è come se quel legame sia stato al sicuro solo fino quando guardato - nominato - da qualcun altro.
La signora A. era la sola vera testimone dell’impresa che compivamo giorno dopo giorno, la sola testimone del legame che ci univa e, quando raccontava di Renato, era come se volesse suggerire qualcosa a proposito di noi, passarci le consegne di una relazione che era stata assoluta e incorrotta, seppure sfortunata e breve. A lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo.
Ma di nuovo, non è solo questo. La signora A. non è solo la testimone di un amore, diventa l’adottante e l’adottata, in un rapporto che esce dalle definizioni. Non è (solo) la collaboratrice domestica, né (solo) la balia, e nemmeno (solo) una madre (prima) o (solo) una figlia da accudire (dopo), né diventa (solo) il baricentro di un nucleo di cui lei, a una prima occhiata, sembrava essere solo ospite. Tutte le definizioni si mescolano tra loro, esattamente come le caratteristiche dei protagonisti, con la differenza che le relazioni diventano fluide, cambiano continuamente, si passano la palla, mentre i tratti dei protagonisti, pur provando a mescolarsi, rimangono insolubili.
Ciò che Galeno non spiega con chiarezza è se gli umori siano miscibili fra loro come vernici, oppure se convivano separati come l'olio e l'acqua; non spiega se il giallo prodotto dal fegato unito al rosso del sangue crei un nuovo temperamento aranciato né se siano possibili, per mezzo del contatto, delle effusioni o ancora del sentimento puro, i travasi fra le persone, come avverrebbe fra due ampolle comunicanti. Per un lungo periodo credetti di sì. Ero sicuro che l'argento di Nora e il mio nero si stessero mischiando lentamente e che lo stesso fluido metallico e brunito avrebbe infine percorso entrambi, un colore simile a quello di certi antichi gioielli berberi (...). Insieme, poi, ci eravamo convinti che la linfa rutilante della signora A. avrebbe aggiunto un'altra sfumatura alla nostra, che ne avrebbe aumentato la densità specifica, rendendoci più forti.
Mi sbagliavo. Ci sbagliavamo. La vita si stringe talvolta come un imbuto e dall'emulsione iniziale degli umori si producono degli strati. L'esuberanza di Nora e la mia malinconia; la fermezza viscosa della signora A. e il disordine etereo di mia moglie; il limpido ragionamento matematico che avevo coltivato per anni e il pensiero ruvido di Babette: ogni elemento, nonostante l'assiduità e l'affetto, restava diviso dagli altri. Il cancro della signora A., un solo grumo infinitesimale di cellule riottose che si erano moltiplicate senza sosta fino a diventare evidenti, aveva portato in risalto la separatezza. Eravamo, a dispetto delle nostre speranze, insolubili l'uno nell'altro.
Non so quante volte ho riletto questo passaggio.
Quella parola - separatezza - mi riportava e mi riporta a tutto ciò che per molto tempo non sono riuscita ad accettare, non sono mai riuscita a fare mio.
Ogni tanto riprendo in mano questo libro e sempre, dicevo, ritorna quell’onda di calore. Non ne so spiegare i contorni, né la sostanza. È più una sensazione di calma, il riapparire di un momento felice, quando un’amica era nella mia vita e mai avrei pensato che potesse non esserlo più.
Forse rileggere questo romanzo mi riporta a quel momento esatto, in cui c’era lo sguardo di una persona, e la presenza di quello sguardo - il ricordo della presenza di quello sguardo - mi fa sentire protetta, mi accompagna mentre vado altrove.
Forse ricerco sempre quell’attimo, un treno che da un posto ricco di tutto ciò che amo mi riporta a casa. E nel farlo, spero che il mio sguardo si alzi e spero di vedere che le persone che amo sono lì: insolubili, separate da me, ma lì.
///
Questa era la seconda puntata di Deviazioni, la rubrica di Autostrada del Sud che parla di alcuni libri o autori che ho amato. La prima la trovi qui.
Se questo progetto ti piace (o non ti piace), se vuoi dirmi qualcosa o anche solo salutarmi, puoi farlo rispondendo a questa mail.
Mi trovi anche su Twitter, su Instagram e sul canale Telegram.
Se vuoi sostenermi con un caffè, puoi farlo QUI.
Un abbraccio,
Silvia
L'autostrada disegnata è di Elisa Lipari.