Autostrada del Sud #35 - Imparare a dire No
Per molto tempo non stata capace di dire No alle cose. In generale, non solo in relazione a un campo specifico. Forse soffrivo di F.O.M.O, o forse avevo paura di perdere l’occasione della vita, con il risultato che più di una volta sono arrivata a un passo dal burnout e l’occasione della vita - pensa un po’ - non era arrivata.
Lavorare a diversi progetti nel campo della comunicazione, e farlo come secondo o terzo lavoro, non è semplicissimo. Il mio lavoro ufficiale occupa 50 ore della mia settimana in un ufficio a 12 km da casa. Tutto quello che provo a fare e ho fatto parallelamente (articoli, podcast, newsletter, collaborazioni esterne, scrittura in programma) lo faccio nel fine settimana o la mattina molto presto. Lo fa credo il 70% delle persone che scrive e collabora in giro, è un tema vecchio come il mondo. Ma tema antico o no, il risultato è che io, personalmente, sono discretamente stanca, diciamo sempre, senza sosta. E mentre cerco una soluzione, ho capito che l’unica soluzione è dire No a qualcosa. Sto facendo ancora molta molta fatica, perché una voce dentro di me dice sempre “Ma sì, un modo lo trovi” (e in effetti poi lo trovo sempre), ma ho iniziato a farlo. Ho imparato a dire No, e fa tutto parte di quel discorso iniziato qualche mese fa sul fatto di rallentare e provare a fare cose fatte bene, con un senso. Ieri ho aperto il mio ordinatissimo file su Notion. Ho guardato i progetti aperti per il 2023 e il 2024. Qualcosa potrò fare, di più, magari meglio, qualcosa potrò abbandonare e sostituire, ma non troppo, almeno con questo tempo a disposizione. Ed è ora di accettarlo, respirare e prendere fiato.
Iniziamo.
Alcuni libri letti
Roberto Bolaño, Notturno cileno, Adelphi. Traduzione di Ilide Carmignani.
La storia è molto semplice e insieme difficile da raccontare in poche righe. Diremo che Sebastián Urrutia Lacroix, prete, critico letterario e membro dell’Opus Dei, nel corso della notte ci racconta la storia della sua vita, o almeno una parte della sua vita. Ci sono personaggi di finzione e personaggi veri, ci sono feste sontuose e cantine in cui i prigionieri di Pinochet vengono torturati, ci sono preti, chiese europee e falchi. E poeti. E critici letterari. In questo libro le cose e le persone si passano il testimone in un racconto-confessione che a volte sembra non avere un senso, e proprio in quel non-senso trova tutta la sua bellezza.
Nona Fernández, Space invaders, Edicola Ediciones. Traduzione di Rocco D’Alessandro.
Una cosa piccola ma buona, recitava il titolo di un bellissimo racconto di Carver. Mi pare che la frase si appiccichi bene a questo breve libro di Nona Fernandez. La storia – novanta pagine di brevissimi e folgoranti capitoli – è infatti raccontata attraverso i sogni di un gruppo di amici, ora adulti e lontani, che erano bambini durante l’ultimo decennio della dittatura, e ruota attorno a una bambina, Estrella González, che durante la narrazione intuiamo essere figlia di un uomo vicino al regime e che è scomparsa misteriosamente. (Da leggere subito dopo La dimensione oscura, sempre di Nona Fernández).
Dola de Jong, L’albero e la vite, La nuova frontiera. Traduzione di Laura Pignatti.
Esce il 17 febbraio, lo aspetto da un anno. Ho avuto la fortuna di poterlo leggere in anteprima e cosa posso dire, è una piccola meraviglia. Scritto negli anni ‘50 e ambientato nelle settimane che precedono l’occupazione nazista dei Paesi Bassi, è la storia di due ragazze molto diverse tra loro che si ritrovano a dividere un appartamento. Erica è sfacciata, egoista, sfuggente, ha relazioni fugaci con ragazze in giro per la città, ha grandi entusiasmi e profonde apatie. Bea è una ragazza coscienziosa, attenta, che molti definiscono “né carne né pesce”. Ha relazioni senza passione con alcuni ragazzi e instaura con Erica un rapporto di co-dipendenza. Quando la vita di Erica inizia ad essere in pericolo in quanto per metà ebrea, Bea è costretta a fare i conti con i suoi sentimenti e il suo desiderio. Un libro coraggioso e che si beve come acqua fresca. Da leggere.
In uscita o da recuperare
Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, Mondadori.
“Quando torni io non ci sarò già più.” Sono le ultime parole di S. a Matteo, pronunciate al telefono in un giorno d’autunno del 1998. Sembra una comunicazione di servizio, invece è un addio. S. sta finendo di portare via le sue cose dall’appartamento di Matteo dopo la fine della loro storia d’amore. Quel giorno Matteo torna a casa, la casa in cui hanno vissuto insieme per sette anni, e scopre che S. si è tolto la vita. Mentre chiama inutilmente aiuto, capisce che sta vivendo gli istanti più dolorosi della sua intera esistenza. Da quegli istanti sono passati quasi venticinque anni, durante i quali Matteo B. Bianchi non ha mai smesso di plasmare nella sua testa queste pagine di lancinante bellezza. Nei mesi che seguono la morte di S., Matteo scopre che quelli come lui, parenti o compagni di suicidi, vengono definiti sopravvissuti. Ed è così che si sente: protagonista di un evento raro, di un dolore perversamente speciale. Rabbia, rimpianto, senso di colpa, smarrimento: il suo dolore è un labirinto, una ricerca continua di risposte – perché l’ha fatto? -, di un ordine, o anche solo di un’ora di tregua. Per placarsi tenta di tutto: incontra psichiatri, pranoterapeuti, persino una sensitiva. E intanto, come fa da quando è bambino, cerca conforto nei libri e nella musica. Ma non c’è niente che parli di lui, nessuno che possa comprenderlo. Lentamente, inizia a ripercorrere la sua storia con S. – un amore nato quasi per sfida, tra due uomini diversi in tutto -, a fermare sulla pagina ricordi e sentimenti, senza pudore. Ecco perché oggi pubblica questo libro, perché allora avrebbe avuto bisogno di leggere un libro così, sulla vita di chi resta. Ma c’è anche un altro motivo: “In me convivono due anime” scrive, “la persona e lo scrittore”. La persona vuole salvarsi, lo scrittore vuole guardare dentro l’abisso. Per vent’anni lo scrittore che c’è in Matteo ha cercato la giusta distanza per raccontare quell’abisso. E quando si è trovato nel punto di equilibrio, da lì, da quella posizione miracolosa, ha scritto queste parole, che, seppur lucidissime, sgorgano con la forza e la naturalezza dell’urgenza. Ciò che stiamo consegnando nelle mani di chi legge è un dono, sì, ma un dono di straordinaria gravità. Eppure, ognuna di queste pagine contiene un germe di futuro, la testimonianza di come, persino nelle pieghe di un dolore indicibile, la scrittura possa ancora salvare.
Silvia Bottani, Un altro finale per la nostra storia, Sem.
”Mauro Massari, quarantenne, è un “atleta mentale” pluripremiato; si dedica assiduamente alle gare di memoria, un’attività che porta avanti dai tempi dell’università. Per vincere utilizza la “tecnica dei loci”, evocando nella propria mente luoghi e momenti della sua storia d’amore con Bianca Cerutti, sorella di Fabio, suo migliore amico ai tempi del liceo, scomparso misteriosamente vent’anni prima. Mauro ha anche una figlia, nata dal rapporto con Ali¬ce; ma quando finisce anche questa storia, si ritira dalla vita pubblica, fino al momento in cui Bianca torna dal passato e lo contatta nella speranza di scoprire qualche frammento di verità sulla sparizione dell’amato fratello Fabio. Attraverso la ricostruzione del loro incontro, della conoscenza reciproca e del suo innamoramento per Bianca, Mauro riacquista la consapevolezza di quanto il sentimento d’amore e il desiderio siano alimentati dal potere dell’immaginazione.”
Jean Kyoung Frazier, Pizza girl, Blackie. Traduzione di Monica Nastasi.
”18 anni e incinta, la protagonista senza nome di questo romanzo consegna pizze per lavoro. Vive con la mamma coreana e il fidanzato, il classico bravo ragazzo americano, e non sopporta nessuno dei due. Un giorno incontra una donna con un figlio di otto anni, e da quel momento non riesce a smettere di pensare a lei. Man mano che la sua vita si complica sempre di più, Pizza Girl dovrà capire chi è, e cosa vuole diventare. Audace e tenero, Pizza Girl è un romanzo sull’ossessione e sulla bellezza, sulla speranza e sulla difficoltà di crescere.”
Giuseppe Caputo, Un mondo orfano, Alessandro Polidoro editore. Traduzione di Francesca Lazzarato.
In una città di mare buia e fatiscente un ragazzo vive, insieme al padre, in ristrettezze economiche. Per non arrendersi alle difficoltà, i due escogitano ogni giorno piani fantasiosi e bizzarri per sopravvivere, con trovate talvolta esilaranti e cercando di offrire nuovi significati e simboli alla loro quotidianità. Anche quando un evento terribile e macabro scuote la vita notturna del quartiere e gli abitanti cominciano ad andarsene, loro decidono di restare. Quello che conta è rimanere insieme. In questa situazione precaria e paradossale i ruoli di padre e figlio si confondono e il protagonista ricerca uno spazio di indipendenza nella scoperta di sé e della sua sessualità, tra siti di incontri, feste e locali gay. Un mondo orfano è un libro commovente e coraggioso che racconta con tenerezza il rapporto padre-figlio e al tempo stesso mette a nudo l’omosessualità e l’omofobia con brutale onestà. Giuseppe Caputo racconta con lirismo audace e selvaggio una storia di amore e di rabbia, di sesso e ribellione, discriminazione e protesta, riflettendo sul corpo come luogo di desiderio, piacere e violenza. Ma forse, soprattutto, questo romanzo è un’onesta e brutale lettera d’amore di un figlio a suo padre, sullo sfondo di una notte brillante, sulle rive di un mare triste come promessa di felicità.
Varie ed eventuali
Ho scritto un pezzo molto lungo a cui tengo moltissimo. La relazione della letteratura cilena contemporanea con il trauma personale e collettivo ci insegna molto sulla memoria e sulla storia. Ho provato a tracciarne il movimento. Su L’indiscreto (con una bellissima foto di Francesca Iovene)
Madeline McIntosh, una delle figure più potenti dell'editoria di libri americana, si è dimessa dalla Penguin Random House U.S.
Imparare a vedere con Onetti. Un approfondimento di Gianni Montieri su Minima et Moralia.
Se avete in mente di andare in vacanza in California, qui (Guardian) ci sono dieci libri sulla California.
Un’intervista a Cynthia Cruz, autrice di Melanconia di classe (Atlantide Edizioni). Su CheFare.
Salvati dagli errori, un articolo di Vincenzo Latronico su Il Post che parla di traduzione e intelligenza artificiale.
Un bellissimo approfondimento su Folle Affanno, di Pedro Lemebel, di Ale Cane. Su Il Tascabile.
Sad Queer Books: Why My Melancholy Heart Loves Joan Didion. Sempre su Them.
Cinque domande a…
Non ricordo assolutamente come ho conosciuto Matteo. So che a un certo punto ci siamo trovati a mangiare una piadina ai Giardini Palestro e un’altra volta a bere un drink buonissimo al Ghe pensi mi, un’altra ancora una birra al Trotter e poi una pizza a pranzo un po’ pesantina (gusti improbabili che non riporteremo). Matteo è stata la prima persona che ha ascoltato la puntata di Tiresia auto prodotta e una delle pochissime ad aver letto un po’ di pagine di una cosa che sto scrivendo. Insomma: è una persona di cui mi fido tantissimo. Fa tantissime cose: è scrittore, autore televisivo, autore di podcast, direttore editoriale di una casa editrice, e spesso mi chiedo come faccia a fare tutto e a farlo così bene. Però tra i ricordi più belli che ho con lui ce ne sono due che spiccano: a un certo punto abbiamo scoperto di essere a New York nello stesso periodo e anche se siamo riusciti a vederci poco, ci siamo ritrovati a una festa in terrazza, con un tramonto bellissimo su Brooklyn, con persone che suonavano e cantavano. E mentre eravamo seduti su alcune sdraio su quella terrazza, io l’ho guardato e gli ho detto: ma ti rendi conto che siamo a Crown Heights a una festa di gente che non conosciamo, ascoltando musica dal vivo e bevendo birra? È stato un bel momento. Poi ok, abbiamo anche visto un film insieme in un cinema con una vista niente male.
Grazie, BB, per aver risposto alle cinque domande di AdS!
1. Qual è il ricordo più bello da quando sei scrittore?
Allora, se c’è una cosa nella quale sono negato è fare le classifiche o mettere in ordine di preferenza le cose. Quindi non so rispondere di preciso alla tua domanda, però ti posso elencare alcuni momenti. Per esempio, quando Piero Gelli (editor di Baldini e Castoldi) mi ha chiamato per dirmi che aveva letto il mio primo romanzo e intendeva pubblicarlo. Quasi non riuscivo a crederci. Poi certe mail che ho ricevuto dai lettori, alcune davvero commoventi. Mi ricordo, fra le tante, quella di una donna nel reparto maternità che stava leggendo un mio romanzo in attesa di partorire il primo figlio. Ma anche certi incontri, come la ragazza che in un festival letterario aveva comprato un mio libro dopo un incontro e il giorno dopo è venuta a consegnarmi un biglietto nel quale mi confessava che era stata alzata tutta la notte per finirlo perché non riusciva a staccarsene, o il ragazzo che è arrivato a una mia presentazione con un mazzo di fiori da consegnarmi perché sosteneva che un mio libro gli avesse “salvato la vita”. Sono tutte reazioni un po’ spropositate, che come autore ti sbalordiscono parecchio.
2. Qual è il tuo libro a cui sei più affezionato? E perché?
Ancora?! Ma sei di coccio! Ti ho detto che non sono capace di rispondere a queste domande. Facciamo così, visto che non riuscirei a decidermi fra i romanzi che ho scritto, ti rispondo che ho un legame particolare con un libro minore che ho pubblicato per la casa editrice indipendente Fernandel, Mi ricordo, una raccolta di ricordi spirata al libro omonimo del pittore americano Joe Brainard. Per quella occasione mi ero inventato un modo diverso di presentare il libro, cioè non andando nelle librerie come al solito, ma in alcuni locali dove lo leggevo per intero (era breve, circa 50 minuti) per poi chiedere ai presenti di scrivere i loro ricordi lì sul posto e proseguivo la serata leggendo i ricordi di tutti. È stato un tale successo che mi hanno chiamato a replicarlo in ogni parte d’Italia: quell’anno ho viaggiato tantissimo. Un’esperienza bellissima, nata quasi per caso, perché all’inizio avevo organizzato solo un paio di serate e tutte le altre sono seguite spontaneamente su invito di festival o teatri.
3. Qual è il primo ricordo che hai con la lettura e/o con un libro?
Questa è facile: ricordo il primo romanzo che ho letto, che era L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson. Me l’aveva regalato mio padre quando ero alle elementari, perché giudicava che un libro di avventure come quello potesse essere una lettura adatta per cominciare. Ricordo che ero emozionato all’idea di avere fra le mani un romanzo (un libro vero, rispetto a quelli illustrati da bambini a cui ero abituato fino a quel momento), ma la mia inesperienza era tale che mi stavo leggendo la lunga prefazione critica iniziale (senza capirci niente) perché ero convinto che fosse il primo capitolo. Quando mio padre se ne è accorto mi ha svelato che potevo saltarla e passare da quelle righe noiose e incomprensibili alle prime righe del romanzo, coinvolgente fin da subito, è stata una vera epifania per me lettore bambino.
4. Che libro stai leggendo in questo momento?
Per abitudine non leggo mai un singolo libro, ma molti in contemporanea perché mi piace passare da uno all’altro a seconda del momento. Per me è del tutto naturale questo metodo e ho mai avuto problemi di confusione fra i diversi testi. Proprio mai.
Inoltre da alcuni mesi sono diventato il direttore editoriale di una casa editrice (Accento edizioni) e accanto ai libri che leggo per piacere ci sono decine e decine di inediti che devo valutare per la pubblicazione. Passo metà della mia vita a leggere, in pratica. Al momento sto comunque leggendo gli ultimi romanzi di Andrej Longo e Silvia Bottani, una biografia in inglese sulla vita di Lou Reed, una raccolta di saggi di Joan Didion e da diversi mesi mi sto centellinando Binge, l’ultimo libro (sempre in inglese) del mio scrittore preferito, ossia Douglas Coupland: è una raccolta di 60 storie brevi e ne leggo solo una ogni tanto per prolungare il piacere.
5. La tua libreria sta andando a fuoco e puoi salvare un solo libro per portarlo con te. Raccontaci quale e perché.
Ma sei pazza? Ti ho detto che non riesco a fare scelte del genere e tu non mi chiedi altro. Mi verrebbe da risponderti citando Jean Cocteau: “Se la mia casa andasse a fuoco cosa porterei via? Certamente, il fuoco”. (Risposta geniale, ma purtroppo non mia). Inutile dire che se la mia libreria andasse a fuoco sarebbe una tragedia per me. Però se dovessi correre a salvarne uno solo ragionerei in termini di autografi. Ho diversi volumi autografati, anche da autori importanti, collezionati in trent’anni di incontri in libreria. Forse mi porterei via uno dei libri di John Waters, che ho avuto l’occasione di conoscere per un’intervista di Rolling Stone. Mi ero portato tutti i suoi volumi da farmi autografare e lui ha sbagliato il mio nome, su tutti quanti. Ma lo adoro talmente (ed è tanto divertente l’errore) che vorrei conservarne almeno un campione.
Un link.
Le giornate si allungano, il sole inizia a scaldare. Se siete a Milano e volete andare via da Milano, questo account Instagram vi consiglia posti raggiungibili in treno, a massimo 150 km dalla città, per fare escursioni a piedi o in bicicletta.
Una parola
Ammazzasette. [am-maz-za-sèt-te] Persona che vanta abilità e qualità che non possiede, spaccone, gradasso, sbruffone. Parola composta dal tema verbale di [ammazzare] e dal sostantivo [sette].
Un album.
Questa puntata è stata scritta ascoltando una playlist impossibile da trascrivere di Four Tet.
Molte grazie per aver letto fino a qui.
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Febbraio è un mese difficile ma forza e coraggio, da marzo è tutto in discesa.
Un abbraccio,
Silvia