Autostrada del Sud #34 - Iniziare
Ho smesso di fare i buoni propositi per l’anno nuovo circa un paio d’anni fa. Farli mi dava un senso di ordine, di rigore, ma soprattutto mi dava l’impressione di voltare pagina, ritrovarmi in una versione di me e della mia vita più simile a quella che volevo. Solo che solitamente quei buoni propositi duravano tre settimane. Durante quel lasso di tempo mi alzavo presto e facevo yoga (che non mi piace, ma fa bene alla mia schiena), portavo in ufficio il pranzo preparato a casa, usavo molta meno plastica, meditavo quasi ogni giorno, smettevo di guardare il telefono un’ora prima di andare a dormire e non lo facevo appena sveglia. Poi tutto si liquefaceva e contravvenendo a uno solo di quei buoni propositi, improvvisamente mollavo le redini anche su tutto il resto.
Da un paio d’anni, dicevo, ho smesso di fare buoni propositi. Mi sono accorta che certo, per me è utile mettere nero su bianco le cose che vorrei cambiare o migliorare, ma per quanto riguarda la mia persona, mi sono accorta che l’unico modo è allinearmi sul Fare, anziché sull’Immaginare. Il mondo delle idee, a maggior ragione per chi fa qualcosa che ha a che fare con il pensiero, è importante, ma io da qualche tempo mi concentro sul Fare. È inutile per me pensare che vorrei tornare a fare sport, o è utile per un millesimo di secondo. Quello che mi cambia è il Fare, mettere le scarpe da ginnastica e uscire a correre tre volte alla settimana, partendo da zero, e scoprire dopo due mesi che è diventata una cosa automatica, un’abitudine radicata. I buoni propositi, soprattutto se sono tanti e sfidanti, mi avvolgono da una pressione che non mi fa bene, che mi fa sentire quasi inadeguata. Quindi ho optato per il Fare, e vado per piccoli tentativi. Ho anche imparato ad accogliere i grigi. Se in un determinato momento della mia vita non riesco a tenere il polso di qualcosa, non butto all’aria anche tutto il resto bensì cerco di ascoltarmi, di capire cosa posso richiedere a me stessa e cosa no.
Ho capito insomma che la cosa importante per me non è il grande obiettivo, ma i piccoli passi per arrivarci, e se parcellizzo le cose, se guardo quel chilometro come la somma di 1000 metri e penso a ogni singolo metro anziché al suo totale, sento meno peso addosso, sento più leggerezza e anche più spontaneità.
Questo per dire che non è molto importante - per esempio - quanti libri leggerete quest’anno, ma che sia bello - nel frattempo - il percorso che ci fate dentro, e anche il modo in cui li leggerete, quei libri (per esempio ho ritrovato un quaderno in cui mi ero segnata tutti i libri che volevo leggere nel 2022. Nel 2022 ho letto decine di libri, ma di quella lista uno solo).
E magari ora iniziamo a parlare di libri prima che io mi trasformi in una guru di self-improvement, che dite?
Cosa ho letto
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Vol. 1: Dalla parte di Swann, Mondadori. Traduzione di Giovanni Raboni.
A New York la scorsa estate ho visto un documentario in un cinema indipendente e bellissimo del Village. Il cinema si chiama Film Forum, il documentario “Le temp perdu”. La regista si chiama Maria Álvarez e ha ripreso un gruppo di anziani di Buenos Aires che per anni si sono incontrati per leggere e discutere insieme tutta la Recherche di Proust. Presto fatto: uscita dalla sala avevo una gran voglia di leggerla. La mia ansia con i libri molto lunghi è nota, ma come per 2666 sono stata salvata dalla divisione in libri e quindi nel mese di dicembre, nei miei viaggi quotidiani in metro, eccomi alla prese con il primo volume. Ho pressoché detestato tutti i personaggi, mi sono infastidita e ho riso diverse volte. Sto tergiversando perché, insomma, come si può parlare e riassumere un libro come questo? È impossibile. E anche un po’ inutile. Piano piano li leggerò tutti. Uno o due all’anno, pensavo. Intanto QUI un podcast di Ilaria Gaspari proprio sul romanzo più lungo del mondo, prodotto da Emons Record con il sostegno dell’Institut Français Italia. QUI invece un pezzo sul Post di Ludovica Lugli su “Come leggere Alla ricerca del tempo perduto”. Posto che esista un modo migliore di un altro.
Kay Dick, Loro, Minimum Fax. Traduzione di Assunta Martinese.
Ho comprato questo libro (in inglese) alla libreria She said di Berlino, in un giorno in cui pioveva senza sosta. Mentre lo leggevo pensavo: ma com’è possibile che non sia stato pubblicato in Italia? E invece in Italia era stato pubblicato, solo che io me l’ero totalmente perso. Il libro ha una storia molto interessante (passato inosservato al momento dell’uscita e diventato praticamente introvabile, è stato riscoperto per caso nell’estate del 2020 da un agente letterario che lo ha scovato in un charity bookshop nel Somerset; Faber & Faber ne ha poi comprato i diritti e lo ha fatto uscire a inizio 2022), così come Kay Dick, che è stata la prima donna direttrice di una casa editrice inglese. La British Library ha dedicato un panel online proprio alla riscoperta di They, coinvolgendo Jay Bernard, Claire-Louise Bennett, Natascha McElhone e Lucy Scholes. Lo potete vedere (e ascoltare) QUI.
“In un tempo che potrebbe essere ieri, oggi o domani, l’Inghilterra è percorsa da gruppi di individui che, senza avere apparentemente poteri forti alle spalle che ne dirigano le azioni, lavorano sistematicamente a reprimere tutto ciò che ha a che fare con l’arte, i sentimenti, la comunicazione. Gli scrittori, pittori e musicisti che insistono a comporre e rendere pubblica la propria arte vengono brutalmente puniti per contrappasso (i pittori vengono accecati, gli scrittori mutilati, i musicisti resi sordi), ma anche chi continua a coltivare sentimenti viene sottoposto a una «desensibilizzazione» e privato della memoria.”
In uscita o da recuperare
Hebe Uhart, Un giorno qualunque, La nuova frontiera. Traduzione Giulia Di Filippo.
”Maestra della narrativa breve, Hebe Uhart trasforma scampoli di quotidianità, all’apparenza trascurabili – una partita a carte, una gita, un saggio di pianoforte –, in straniante materiale narrativo. Le sue parole indagano la realtà come una luce che attraversa una fessura, mettendo in evidenza ciò che c’è di obliquo nella normalità, e creando un coro di personaggi eccentrici ma estremamente reali dei quali ci mostra i desideri e le frustrazioni, slanci e amarezze. In questo mosaico di voci la sua attenzione è soprattutto per i personaggi femminili, spesso veri e propri alter ego: una donna in cerca di una domestica, una prostituta, una maestra in una scuola rurale, una madre autoritaria. Un linguaggio diretto e tagliente venato da un equilibrato senso dell’umorismo sono gli ingredienti di questa grandissima narratrice che riesce dove molti hanno fallito: rendere inconsueto, curioso e avvincente l’ordinario.” (Esce il 13 gennaio)
André Kaminski, Il terremoto di Agadir, Acquario. Traduzione di Amina Pandolfi, con un disegno di Roberto Bazlen.
“Fin dall’infanzia tento sempre di dimostrare l’impossibile: che gli uomini sono buoni, che la vita ha uno scopo, che si può migliorare il mondo, che lo spirito è più forte della carne”. Così André Kaminski presenta se stesso nelle prime righe de Il terremoto di Agadir e così procede, nello svolgersi di questi racconti, offrendo un ritratto del tutto inconsueto e paradossale dell’Africa maghrebina (tra Algeria e Marocco) nei primi Anni Sessanta. Sono gli anni della decolonizzazione: al governo francese si sono sostituite le istituzioni locali e Kaminski si diverte a cogliere nelle situazioni e nei personaggi, in ciò che fanno e in ciò che si rifiutano di fare, la scintilla della genialità - che l’autore chiama “balenio dell'antimateria” -. Accade con Genfud, un aspirante autore televisivo che combatte per il suo diritto a vivere, o durante riti tradizionali che si spingono sul confine della magia. Così accade spesso che l’irrazionale vinca sulla logica, che lo spirito si riveli più forte delle cose concrete e che i sogni dei personaggi diventino una delle possibilità del reale.
Uno sguardo diverso sull’Africa, un’autocritica al nostro modo di affrontare il post colonialismo, una lettura antropologica che fa pensare a Kapuscinski. (Esce a gennaio)
Kathy Acker, Sangue e viscere al liceo, LiberAria. Traduzione di Claudia Durastanti.
”Janey è solo una ragazzina, ma le tocca in sorte un viaggio di formazione e deformazione da incubo, che la vedrà coinvolta tra gang punk e amori incestuosi, intellettuali fascinosi come Genet e femministe privilegiate come la Jong. Tra sofferenza personale ed erotismo al limite, l’autrice trascina la sua protagonista in una tormentata Odissea incestuosa e corporale, senza mai farle perdere lo sguardo puro e innocente da adolescente, con cui assorbe, elabora e attraversa le brutture del mondo. Mescolando prosa, poesia, dramma, plagiarismo e “mappe dei sogni” illustrate, questo libro epocale è anche un manifesto del femminismo più anarchico ed inventivo, il capolavoro dell’erede indiscussa di William S. Burroughs.” (Esce l’11 gennaio)
Mohsin Hamid, L’ultimo uomo bianco, Einaudi Editore. Traduzione di Norman Gobetti.
”Un mattino, Gregor Samsa, commesso viaggiatore, si sveglia da sogni inquieti e si ritrova trasformato in un immane insetto; anni dopo, Anders, personal trainer in un’anonima palestra di una città indefinita, si sveglia e scopre di essere diventato di un innegabile marrone scuro. Anders non si riconosce, non sa chi sia l'uomo scuro che vede nello specchio, vorrebbe ucciderlo, si sente derubato, della propria vita e di se stesso. Lo dice solo all'amica e amante Oona, ma presto i telegiornali cominciano a diffondere la notizia: tutte le persone bianche stanno diventando scure. E mentre il lutto per la morte della bianchezza si trasforma in inno, Anders e Oona ci mostrano che a volte per conoscersi davvero è necessario smettere di riconoscersi.” (Esce il 10 gennaio)
Varie ed eventuali
The Portrait Hung in Joan Didion’s Home. But Who Painted It?
Romanzi del mare, un articolo di Valentina Pigmei su Il Tascabile.
Life, Death, This Moment of June. Su The New York Review.
Dissoluzione, un racconto di Greta Plaitano su L’indiscreto.
A proposito di White Noise. What a 1985 Novel Can Tell Us About Life in the 2020s: Almost Everything. Sul New York Times.
Writing in Mother Tongue and an Other Tongue. Su Words Without Borders.
Un pezzo su James Baldwin che ha a che vedere con il cinema in cui ho visto il documentario sulla Recherche.
Cinque domande a…
Due anni fa, nel numero di AdS di dicembre 2020, iniziavo questa rubrica di mini interviste a persone che lavorano nell’editoria. Prima erano uffici stampa o editor, con il tempo ho deciso di fare cinque domande anche a chi scrive, a chi traduce, a chi dirige. Oggi aggiungiamo un altro tassello del magico mondo dei libri perché a rispondermi è Michele Turazzi, che è un caro amico, un ottimo autore (ma di questo parleremo nei prossimi mesi) e un agente letterario. So che per molti l’agente letterario è una figura mitologica, ma questa è la dimostrazione che invece esistono, fanno un lavoro pazzesco e rispondono egregiamente anche quando non vogliono rispondere.
Michi ti devo almeno un paio di birre alla Ribalta. E grazie, anche per l’aiuto che mi dai quando il cervello mi va in pappa per la scrittura.
1. Qual è il ricordo più bello che hai da quando sei un agente letterario?
Ce ne sono molti, penso per esempio al momento in cui ho ricevuto la busta con la mia copia del primissimo libro che abbiamo contribuito a far pubblicare (Vita e morte delle aragoste di Nicola H. Cosentino, Voland, era giugno 2017), oppure, in generale, tutte quelle volte in cui, leggendo un manoscritto (spesso impaginato male, quasi sempre con un font troppo piccolo e un’interlinea sballata) senti quella vocina che ti dice che si tratta di un romanzo che merita di arrivare in libreria e di essere letto, qualcosa su cui sarà bello investire tempo ed energie. Ma se devo scegliere un ricordo solo, vado dritto alla cerimonia di premiazione con cui Michele Cocchi ha vinto il Premio Comisso nell’autunno del 2018 (La Casa dei bambini, Fandango) al Palazzo dei Trecento di Treviso: oggi Michele non c’è più, anche se aveva appena quarantatré anni, e a me piace ricordarlo così, vittorioso, nel salone più bello della piazza più bella della città in cui sono cresciuto.
2. Qual è il libro pubblicato da uno dei tuoi autori/tue autrici a cui sei più affezionato? E perché?
Questa è una domanda vietatissima, un po’ come chiedere a un genitore quale figlio preferisce (vale solo se ne hai uno). Ogni nuovo libro si porta dietro una nuova avventura, ed è sempre intrigante seguire i suoi primi passi nel mondo. Ne approfitto per citarti il romanzo che sta arrivando in libreria in questi giorni, La gioia avvenire (Mondadori). È l’esordio di una scrittrice talentuosissima, Stella Poli, già finalista al Premio Calvino, uno di quei rari romanzi in cui alla lettura si avverte la costante sensazione che ogni scelta stilistica, ogni parola, si porta dietro un tale lavoro di selezione, eliminazione, rifinitura, riscrittura, rilettura che sarebbe stato impossibile andare più in là.
3. Qual è il primo ricordo che hai con la lettura e/o con un libro?
Sono stato per tutta l’infanzia e l’adolescenza un vorace lettore di fumetti e un pigro lettore di romanzi. Il mio primo ricordo che abbia a che fare con la lettura è senza dubbio legato alla famiglia Disney, quasi sicuramente con Topolino, che leggevo ogni mercoledì e di cui possedevo, grazie a uno zio magnanimo, un’ampia scorta di numeri degli anni Sessanta e Settanta, stipati in rigoroso ordine cronologico all’interno di una cassapanca. In un certo senso, è grazie a Topolino se imparai a leggere: avevo così tanta voglia di scoprirne le storie, che chiesi che mi venisse insegnato l’alfabeto e tutto il resto dell’armamentario ben prima che venissi iscritto alle elementari: non ho mai brillato in pazienza.
4. Che libro stai leggendo in questo momento?
Spesso utilizzo i periodi di pausa dal lavoro per leggere romanzi importanti degli anni passati che ho lasciato da parte. Ho finito l’anno con Ferito a morte di Raffaele La Capria (Mondadori) e ho cominciato quello nuovo con Patria di Fernando Aramburu (Guanda). In mezzo c’è stato spazio per l’ultimo giallo di Matsumoto Seichō pubblicato da Adelphi, Il dubbio, e per la raccolta di racconti umoristici di Simon Rich, Il grande sonnellino (Nottetempo).
5. La tua libreria sta andando a fuoco e puoi salvare un solo libro per portarlo con te. Raccontaci quale e perché.
Leggendo la tua domanda, mi è venuto in mente uno dei tanti giochi comparsi sui social durante il primo lockdown, tutti modi con cui si cercava di sconfiggere la noia. Veniva chiesto di selezionare i sette libri più importanti della propria vita e sono abbastanza convinto che, prima che la casa vada a fuoco, riuscirei a salvarli tutti e sette (o almeno ci proverei). Visto che però sarebbe la seconda domanda che svicolo, ti seleziono 2666 di Roberto Bolaño, il libro che, negli anni universitari, mi ha fatto capire che tutto quello che sapevo del romanzo era parziale e che l’asticella può essere sempre spostata un po’ più in là.
Un link.
Dove puoi arrivare in treno in cinque ore? (Via link molto belli)
Una parola.
Miliare. [mi-lià-re] Di colonna o pietra che sulle strade segna il numero progressivo delle miglia o dei chilometri. Voce dotta recuperata dal latino tardo [miliare], alterazione del latino classico [miliàrius] (sottinteso ‘lapis’, ‘pietra’), dall’aggettivo [miliàrius] ‘di mille unità’, da [mìlia] ‘migliaia’.
Un album.
Questa puntata è stata scritta ascoltando Masculine, di Rouquine.
Una citazione di Joan Didion.
Tornate indietro con la memoria.
Rinfrescatevela un attimo, se necessario: consultate la Nexis, consultate qualche microscheda.
Provate a individuare le notizie più interessanti del periodo in questione.
Tralasciate le storie di punta dei notiziari serali, anzi tralasciate del tutto i notiziari serali.
Proseguite, invece, fino a giungere a quel tipo di trafiletti di cinque centimetri che tendono a comparire appena sotto la prosecuzione, al centro del giornale, di un articolo di prima pagina riguardante la risposta del Congresso a un resoconto della Commissione Kissinger, per esempio, oppure di fronte alla prosecuzione a pagina diciannove di un altro articolo sulla delibera della corte federale a favore di un’investigazione ai sensi di possibili violazioni del Neutrality Act.(Joan Didion, Il suo ultimo desiderio, Il Saggiatore. Traduzione di Matteo Orsini.)
Grazie per aver letto fino a qui e buon inizio anno.
Se avete voglia di dirmi Ciao, potete rispondere a questa mail oppure scrivermi su Twitter o Instagram.
L’influenza che gira è brutta, occhio ai colpi d’aria.
Ci si risente presto.
Un abbraccio!
Silvia