Autostrada del sud #33 - Fare spazio
Da qualche mese sto facendo un lavoro di sottrazione e cambiamento, e nel farlo mi sono accorta di aver rallentato il ritmo, allentato la presa. Fino a poco tempo fa rallentare il ritmo mi sarebbe sembrato folle, oggi sento che per me è una benedizione.
Sottrazione: avere meno (meno cose, meno pensieri, meno confusione, meno impegni, meno eventi) mi fa vedere più chiaramente ciò che in questo momento è per me importante. È come se avessi preso in mano un colino e ci avessi fatto rimanere dentro solo qualcosa, e lo osservassi da vicino e intensamente. Non è stato facile, ovviamente, un po’ per abitudine, un po’ perché siamo in un flusso che ci ricorda come sia facile “perderci le cose”, “non esserci”, “perdere il treno”, “essere dimenticati”, “missing out”. Ogni scelta è sempre una rinuncia (cit.), e lo è anche questa volta, ma mi pare sia la strada giusta almeno per me.
C’è questa serie che avrete visto anche voi, perché l’abbiamo vista tutt*: si chiama “The Bear” e racconta la storia di uno chef che si trova a gestire il locale del fratello suicida. È una serie frenetica, basata su dialoghi velocissimi, urla e litigi, SI CHEF e tutte quelle cose lì, ma l’ultima puntata si apre con un piano sequenza lunghissimo in cui Carm tira le fila di tutto il resto e a un certo punto dice: “E più eliminavo, più mi sentivo calmo”. Carm parlava di altro, ma io ci ho pensato per giorni, e continuo a pensarci.
Cambiamento: a volte attraverso cose microscopiche e stupidissime riescono a passare cose più grandi. Io per esempio ho deciso di aumentare il tempo che impiego per andare in ufficio ogni mattina, da cinquanta minuti a un’ora. L’ho fatto perché mi sono accorta che se viaggio in superficie, se attraverso il parco e i quartieri che amo anziché stare sottoterra tutto il tempo, il mio umore migliora, la mia testa è più libera. Leggo e guardo fuori, vedo la luce e il cielo lattiginoso, i cani che corrono sull’erba e si saltano addosso. Poi prima di prendere la metro prendo un cappuccino al volo, scendo le scale saltellando con i baffi bianchi. Venti minuti al giorno sono quasi due ore a settimana, ma per la prima volta decido di dare un valore nuovo al tempo che ho. Perché sto facendo questa premessa lunghissima e fuori tema? Per nessun motivo, se non che l’autunno è una stagione che amo e quest’anno Milano mi sembra ancora più bella. E ok, anche perché mentre pensavo a cosa scrivere come introduzione a questa puntata mi è arrivata questa questa notifica e mi è parsa una specie di segno. (Come potete vedere dalla data della foto, anche questa newsletter ha rallentato il ritmo e va bene così).
Partiamo dagli eventi: sabato 3 dicembre, alla libreria Alaska di Milano alle 19.00, Laura Pezzino e io parleremo di Joan Didion. L’evento vuole essere una serata omaggio alla grande scrittrice e saggista scomparsa quasi un anno fa. Parleremo della sua vita, delle sue opere, di come funziona la sua scrittura, leggeremo estratti dei suoi libri e chiacchiereremo insieme su tutto quello che ci verrà in mente. Se avete voglia e riuscite, vi aspettiamo lì. L’evento ufficiale uscirà a breve, quindi tenete d’occhio la pagina Facebook della libreria.
Iniziamo.
Alcune cose lette di recente.
Joan Didion, Perché scrivo, Il Saggiatore. Traduzione di Sara Sullam.
Dodici saggi inediti, scritti tra gli anni ‘60 e i ‘00, che parlano di scrittura, di fallimenti, di giovinezza e di passioni. È incredibile come il suo stile fosse già formato fin dal principio, come si possa vedere - anche nei primi saggi - il modo in cui per esempio avrebbe costruito le scene dei romanzi. È incredibile anche come riesca a rendere interessante qualsiasi argomento, che sia il rifiuto ricevuto da Princeton, il suo amore per Hemingway, il modo in cui funziona la sua testa quando scrive fiction, le donne che Robert Mapplethorpe ha scelto di fotografare o Tony Richardson. Sono i saggi perfetti per iniziare a leggere Joan Didion se non avete mai letto i saggi di Joan Didion.
Diamela Eltit, Mai e poi mai il fuoco, Gran via. Traduzione di Raul Schenardi.
Che grande scoperta è stata per me Diamela Eltit. Il titolo è tratto da un verso piuttosto criptico del poeta peruviano César Vallejo ed è la storia di una coppia di ex militanti che chiusi una stanza ripercorre le esperienze vissute e gli ideali rivoluzionari che ha condiviso. Il dialogo si intreccia raccontandoci la loro storia, ma è soprattutto la donna che affronta il fallimento e la sconfitta che legge nella lotta comune e nella militanza clandestina. Come sempre, Eltit sposta nel privato l’esperienza pubblica, raccontando la Storia da un’angolazione diversa. Lo stile è ritmico e sincopato, può non piacere e risultare non facile, ma trovo la sua scrittura interessantissima e in qualche modo sperimentale rispetto al racconto della ferita cilena.
Chi Ta-wei, Membrana, Add editore. Traduzione di Alessandra Pezza.
Membrana è un classico della letteratura speculativa cinese e fa impressione leggerlo oggi sapendo che è stato scritto nel 1995. Pare un libro che ha letto il futuro. La storia è ambientata in fondo al mare, dove l’umanità si è rifugiata a vivere a causa dei devastanti cambiamenti climatici che rendono pressoché impossibile la vita in superficie e la protagonista è Momo, una famosa estetista della pelle che vive una vita solitaria e introversa. Ha un rapporto complicato con la madre, che non vede da vent’anni e che ora ritorna improvvisamente nella sua vita facendola riflettere sul proprio corpo, la propria identità di genere, la sua memoria e la sua intera esistenza.
In uscita o da recuperare
Ken Kalfus, Le due del mattino a Little America, Fandango. Traduzione di Monica Capuani.
”Ambientato in un futuro prossimo in cui l’America è dilaniata da una feroce guerra civile, Le due del mattino a Little America ha un sinistro portato da romanzo profetico. Ron Patterson è un esule statunitense che ora vive altrove, come tanti. È in forze per una società di manutenzione di impianti e spesso lavora sui tetti. È lì che, per caso, intravede da una finestra una donna che continua poi misteriosamente a riconoscere in tante donne che incontra nelle sue peripezie di indesiderato sociale. Alla fine, approda in una città in cui c’è una “Little America”, una baraccopoli di espatriati in uno dei pochi paesi ancora disposti ad accettarli. Come molti compagni rifugiati si finge canadese, perché essere americano significa sottoporsi a uno stigma pesantissimo, e si muove come un’ombra inosservata e inquietante. Eppure, a Little America, ritrova finalmente una comunità. Riaprendosi alla nostalgia e ai ricordi della sua vita passata, Ron ricomincia a credere che forse potrebbe avere trovato una casa. Ma è soltanto un’illusione, la sua serenità viene rapidamente messa a repentaglio dalle risorgenti divisioni politiche che anche laggiù minacciano il tessuto sociale.”
Julio Cortazar, Salvo il crepuscolo, Sur. Traduzione di Marco Cassini.
”Per tutto il suo lungo percorso letterario Julio Cortázar ha sempre scritto poesia, considerandola un rifugio, un modo per tornare a casa. Quando ormai sapeva di essere prossimo alla morte volle, come ultimo progetto editoriale, sistemare il suo corpus poetico in questo libro. Tradotto per la prima volta in italiano a quarant’anni dalla sua uscita, Salvo il crepuscolo raccoglie circa centocinquanta poesie, ma offre anche godibilissime pagine in prosa, che fanno da contrappunto ai versi. In questi brani un Cortázar al culmine del successo racconta in una sorta di laboratorio creativo il suo stesso compito di sistemazione dell’antologia: lo vediamo rovistare in vecchi cassetti, trascrivere versi recuperati da fogli e scontrini, da pagine strappate o preziosi quaderni di carta giapponese, tracciando così una cronistoria interna al libro stesso.”
Flannery O’Connor, Punto Omega, Minimum Fax. Traduzione di Gaja Cenciarelli.
”Una donna che fatica ad accettare l’integrazione razziale intraprende con il figlio un difficile viaggio in autobus; un toro in fuga da una fattoria si trasforma in dispensatore di morte o forse di grazia; un uomo anziano ha un rapporto contrastato con la nipotina, lacerata tra l’affetto per il nonno e la lealtà verso il padre violento; uno scrittore malato torna a vivere nella fattoria della sua infanzia; un uomo del Sud coperto di tatuaggi è impegnato a dimostrare il proprio amore per una donna che ha dedicato se stessa al Dio dell’Antico Testamento: sono solo alcuni dei personaggi che affollano i racconti di Punto Omega. La maestria e la padronanza della forma breve di Flannery O’Connor raggiungono probabilmente il loro culmine nella sua seconda e ultima raccolta di racconti, pubblicata postuma nel 1965. Giunta alla piena maturità di scrittrice, devastata dalla malattia che la porterà nel giro di pochi anni a una morte precoce, O’Connor conferma e se possibile rafforza il proprio talento di narratrice perennemente sospesa tra il grottesco e il realismo più brutale, tra lo stupore di fronte alla crudeltà del mondo e il richiamo della fede, tra l’incombere della morte e il paradosso della salvezza.”
Luciano Bianciardi, Trilogia della rabbia, Feltrinelli editore.
”La guerra è finita da poco e tutte le possibilità sembrano aperte per un ragazzo di provincia brillante e desideroso di dedicarsi al Lavoro culturale: il suo apprendistato è un vagabondaggio scapigliato fra cineclub e circoli culturali scalcagnati, dove si sviscerano problemi, si pongono istanze, si progettano saggi imprescindibili. Si creano, insomma, le basi per un futuro migliore. Ma per realizzarlo, quel futuro, tocca andare a costruirlo là dove tutto succede, dove le cose si fanno. Ecco quindi, nell’Integrazione, il provinciale giungere a Milano insieme al fratello. È il momento dell’incontro con la cultura che si fa industria, e con la sua tutt’altro che splendida realtà: riunioni, discussioni, nevrosi, “un lavorìo continuo, intorcinato, che sembra tornare sempre al punto di partenza”, rappresentazione plastica, spiega Francesco Piccolo, “della vita (sprecata) degli intellettuali”. E allora dell’entusiasmo iniziale non restano che frustrazione e risentimento, una delusione rabbiosa che si vorrebbe manifestare con un gesto distruttivo ed eclatante: un atto di ribellione vera, come quello progettato dall’io narrante della Vita agra, estremo tentativo di non rinunciare alla purezza dei propri ideali. Ruvida, a tratti profondamente amara, ma sempre sostenuta da una giocosità irresistibile e da una fulminante ironia che mette alla berlina tutte le contraddizioni del miracolo economico in chiave culturale, la Trilogia della rabbia è il capolavoro di Luciano Bianciardi.”
Varie ed eventuali
Annie Ernaux ha vinto il Premio Nobel per la letteratura.
Un bell’approfondimento a tre anni dalle proteste cilene che hanno portato al referendum sulla nuova costituzione, e a un mese dal risultato che ha votato per non cambiarla.
Un pezzo su una scrittrice che amo moltissimo.
Alessandro Cattelan ha fondato una casa editrice: si chiama Accento, pubblicherà esordienti e il direttore editoriale è Matteo B. Bianchi.
Un ciclo di incontri molto interessante alla libreria Scaldasole di Milano.
“Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing Life”, una mostra a Palazzo Altemps a Roma, dal 26 ottobre.
A box built in the abyss. On two new fictions by László Krasznahorkai.
La escritora, la santa y la espina: la creación de Camila Sosa Villada. Su El Pais.
Un tweet che mi ha fatta molto ridere anche se non c’entra niente con i libri.
Cinque domande a…
Io e Giulia siamo diventate amiche da quando mi ha letteralmente dato un tetto sopra la testa non appena sono arrivata a Milano e non riuscivo a trovare casa. E vi assicuro che non è una cosa da poco. La convivenza è diventata amicizia e l’amicizia ha portato a momenti buffi, drammatici, conversazioni letterarie e cinematografiche, pranzi a orari improbabili, caffè sul terrazzo, risate anche quando non si doveva ridere, pianti diventati risate. Io di quegli otto mesi ho un ricordo bellissimo, nonostante fosse un periodo per certi versi molto doloroso e difficile, e a Giulia, oltre il mio bene, va tutta la mia riconoscenza. Ma oltre ad essere la mia ex coinquilina, Giulia è una bravissima traduttrice e ufficio stampa e oggi è qui in questa veste, come rappresentante di SEM, che da ormai diversi anni ci regala libri bellissimi. Queste sono le cinque domande per lei e le sue cinque risposte. Grazie Giuli, vengo a festeggiare presto e guarderemo i vicini che mettono la lattuga ad asciugare sullo stendino.
1. Qual è il ricordo più bello che hai in Sem?
Di ricordi belli ce ne sono tanti: incontrare Khaled Hosseini, lavorare con autori militanti e coraggiosi come Antonio Moresco, Laura Calosso o Nadia Busato, conoscere un grande autore norvegese nel suo habitat naturale come Gert Nygårdshaug… ma credo che in assoluto l’esperienza più arricchente ed emozionante sia stata quella di seguire David Leavitt nel tour di questo anno, in occasione della nuova edizione de La lingua perduta delle gru e vedere con i miei occhi il “potere rivoluzionario e salvifico” di un libro come quello, che ha aiutato generazioni di lettori a esprimere la propria identità… a fare coming out. Lettori che sono venuti numerosissimi a tutte le tappe del suo lungo tour in Italia.
2. Qual è il libro pubblicato da Sem che ami di più? E perché?
Il mio libro preferito in SEM è Storie di vite diverse di Bette Howland. Ci sono libri che ti sorprendono come incontri inaspettati in cui sprofondiamo dalle prime pagine, catturati dai mondi che ci si aprono davanti. È quello che accade con questa raccolta di racconti: vite quotidiane, spaccati familiari, fatiche, sogni, matrimoni, tensioni razziali, ultimi addii che dispiegano intere esistenze. Storie il cui sfondo è la Chicago degli anni’ 70 che hanno riportato alla luce una scrittrice di grande talento molto apprezzata da Saul Bellow, ma scomparsa troppo presto dai radar culturali e sociali a causa del male oscuro e dunque dimenticata (una parabola simile a quella di Lucia Berlin) e riscoperta solo dopo la sua morte, avvenuta in povertà nel 2017. Una scrittrice capace di osservare il mondo con sguardo acuto e brillante (come quello con cui ci guarda lei dalla cover del libro), che davvero colpisce al cuore. L'umanità descritta da Bette Howland è deragliata ma è come se tenesse stretta la città in un abbraccio inquieto ma affettuoso, come se fosse lo sfacelo dal quale ripartire per il sogno di una nuova America.
3. Qual è il primo ricordo che hai con la lettura e/o con un libro?
Credo di essere diventata malata di lettura con i C’era una volta e I raccontastorie, fascicoli che si compravano in edicola alla metà degli anni’80 accompagnati da audiocassette. Ogni fascicolo conteneva diverse fiabe classiche e racconti per bambini di autori moderni. Li ho letti e riletti e credo di sapere letteralmente a memoria alcune storie come quella di Gobbolino il gatto della Strega. Per me era l’appuntamento più atteso e ho conservato tutti i fascicoli nella mia casa di famiglia a Pisa… ben oltre l’adolescenza, quando avevo l’influenza mi rileggevo le mie amate raccolte, ero convinta che fossero la cura migliore per la febbre.
4. Che libro stai leggendo in questo momento?
Ho appena iniziato a leggere Nuoto libero di Julie Otsuka appena uscito per Bollati Boringhieri. Dell’autrice nippoamericana avevo amato tantissimo anni fa Venivamo tutte per mare, un poetico racconto corale sul viaggio delle future spose per gli immigrati giapponesi in America e la successiva fatica nell’adeguarsi allo stile di vita americano. In nuoto libero ovviamente l’ambientazione è quella di una piscina e al centro della scena una figlia e una madre molto legate. Finché non compare una crepa…
5. La tua libreria sta andando a fuoco e puoi salvare un solo libro per portarlo con te. Raccontaci quale e perché.
Oddio, ma come si fa a decidere?! Io quasi quasi resto coi libri e la mia gatta Simone e aspetto che venga Guy Montag a salvarci…
Un link.
Cinque minuti su Rosalía.
Una parola.
Congedo. [con-gè-do]. Permesso di partire; separazione, e saluti che la precedono; cessazione dal servizio; periodo di astensione dal lavoro. Dall’antico francese [congiet], dal latino [commeatus] ‘licenza di partire’, propriamente ‘andare e venire, circolazione’, da [commeare] ‘andare e venire’, derivato di [meare] ‘passare’, col prefisso [con-].
Un album.
Questa puntata è stata scritta ascoltando Reservoir, dei Fanfarlo.
Una citazione di Joan Didion.
Che cosa era stato tutto quanto? Tutte le promesse non mantenute, le delusioni d’amore e d’onore; Martha seppellita là fuori sull’argine con un vestito da 250 dollari comprato da Magnin, con limo di fiume nelle cuciture; Sarah a Bryn Mawr, Pennsylvania; suo padre, a cui non importava molto di nulla, il tranquillo perdente (Non sarebbe mai potuto diventarlo, le disse la madre, amandolo comunque); sua madre, seduta da sola quel pomeriggio, nella grande casa sul fiume che preparava gli inviti per l’Admission Day, mentre guardava lo show musicale di Dick Clark dal momento che avevano rimandato la partita dei Dodgers per la pioggia; Everett giù al molo con la .38 del padre. Lei, sua madre, Everett, Martha, tutta la galleria di famiglia: lo stesso sangue, trasmesso attraverso dodici generazioni di predicatori itineranti, sceriffi di contea, cacciatori di indiani, avvocati di campagna, studiosi della Bibbia, un misterioso senatore degli Stati Uniti venuto da uno stato di frontiera tanto tempo fa; duecento anni di radure in Virginia, Kentucky e Tennessee, e poi la tregua, il vuoto in cui hanno posato le loro casse di palissandro, le spazzole d’argento; il taglio netto che li avrebbe riscattati tutti.
Joan Didion, Da dove vengo, Il Saggiatore. Traduzione di Sara Sullam.
Anche questa volta siamo alla fine.
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Fa buio prestissimo e sembra tutto lontano, ma mancano 120 giorni alla prossima primavera. Fate un grande respiro, andrà tutto bene.
Inoltre, questa potrebbe essere l’ultima puntata dell’anno (vorrei fare una capatina prima del 31, ma la vedo difficile causa milioni di cose in ballo e causa intro a questa newsletter). Nel caso: buon fine anno, buon inizio 2023.
A presto!
Silvia